L’errore che ho commesso con la mia amica in lutto
L’autrice di “We Need To Talk” racconta cosa ha imparato aiutando (e non aiutando) un’amica che aveva subito una perdita
Ma, dopo aver ascoltato quella storia, la mia amica mi guardò e sbottò: “Ok, Celeste, hai vinto tu. Non hai mai avuto un padre, almeno io ho passato trent’anni con lui. A te è andata peggio. Immagino che non dovrei essere tanto turbata se mio padre è appena morto.”
Ero sconvolta e mortificata. La mia reazione immediata fu quella di perorare la mia causa. “No, no, no”, dissi, “non sto dicendo questo. Intendevo solo che so come ti senti”. E lei rispose: “No, Celeste, non lo sai. Non hai idea di come mi sento.”
Lei andò via e io rimasi là impotente, mentre la guardavo allontanarsi e mi sentivo un’idiota. Avevo deluso la mia amica. Volevo solo consolarla e, invece, l’avevo fatta sentire peggio. All’epoca, credevo ancora che mi avesse frainteso. Pensavo che fosse in un momento fragile e che mi avesse aggredito ingiustamente, quando stavo solo cercando di aiutarla.
Ma la verità è che non mi aveva frainteso affatto. Capiva quello che stava accadendo forse meglio di me. Quando iniziò a condividere le sue emozioni, mi mise a disagio. Non sapevo cosa dire, così mi affidai d’istinto a un argomento che trovavo rassicurante: me stessa.
Magari cercavo d’immedesimarmi, almeno a livello conscio, ma in realtà stavo sottraendo centralità al suo dolore e deviando l’attenzione su di me. Lei voleva parlarmi del padre, raccontarmi dell’uomo che era, perché potessi comprendere a pieno la vastità della sua perdita. Invece, le chiesi di fermarsi per un momento e ascoltare la storia della tragica morte di mio padre.
Da quel giorno, ho iniziato a far caso a tutte le volte in cui reagisco a storie di perdita e di difficoltà altrui raccontando delle mie esperienze. Mio figlio mi raccontava di essersi scontrato con un altro bambino dei Boy Scout, e io gli parlavo di una ragazza con cui avevo litigato al college. Quando una collega fu licenziata, le dissi delle mie difficoltà a trovare un lavoro dopo essere stata licenziata anni prima. Ma quando ho iniziato a notare le reazioni degli altri ai miei tentativi di entrare in empatia, mi sono resa conto che l’effetto della condivisione delle mie esperienze non era mai quello che volevo sortire. Tutto ciò di cui quelle persone avevano bisogno era che le ascoltassi e che prendessi atto di quanto stavano attraversando.
Il sociologo Charles Derber descrive questa tendenza ad inserire se stessi in una conversazione come “narcisismo conversazionale.”
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