Oltre il compiacimento altrui: quando il sacrificio non è funzionale
Tante volte i comportamenti umani ci appaiono incomprensibili e ci sforziamo a dare loro un senso in quanto si pongono al di fuori di quello schema di azioni che potremmo facilmente ricondurre alla specie umana. Tuttavia le persone dispongono di un repertorio comportamentale assai variegato, in cui non di rado un’azione risulta essere l’opposto dell’altra. Viene dunque naturale chiedersi come è possibile che la razza umana sia il risultato di questo miscela multiforme.
Difficile è per esempio comprendere come si sono potuti integrati ed evolvere nel tempo tutti quei comportamenti che fanno capo da una parte all’istinto di sopravvivenza, dall’ altro al sacrificio verso il prossimo.
La spinta al sacrificio è dovuta alla percezione di essere in obbligo verso coloro le cui vite sono interdipendenti con le nostre piuttosto che da un senso più generale di buona volontà verso il prossimo: praticamente è come se ci sentissimo di dovere qualcosa a chi ci è vicino.
Cosa c’è di male in questo, magari si stanno chiedendo in molti….
Il senso del sacrificio di sè
Sicuramente l’impulso che ci spinge a rivolgerci ai nostri prossimi è un’ottima cosa in molti scenari,ma non sempre: sto parlando dei soggetti che hanno sviluppato lo schema disfunzionale del “sacrificio di sè”, in cui si finisce per consegnare la propria vita agli altri e la vulnerabilità arriva a contraddistinguere la persona.
Fin da molto piccoli ci hanno spesso insegnato a condiscendere il prossimo, a tendere la mano, a offrire sostegno e supporto e ad essere comprensivi verso chi sta vicino.
Siamo di fatto molto flessibili con gli altri, eppure sembra che lo stesso trattamento non sia quello che riserviamo a noi stessi. Perché?
Perché spesso crediamo che se non faremo le cose bene in funzione degli altri, gli stessi o le persone a loro vicino non ci accetteranno né ci ameranno.
Pensiamo che dicendo “no,” ci rifiuteranno e ci odieranno, che ci volteranno tutti insieme le spalle irrimediabilmente.
Ma ne siamo sicuri?
Cosa succederebbe se qualcun altro si comportasse così con noi? Lo capiremmo, vero? E allora… perché non ci concediamo il permesso di essere come siamo, di dire quello che pensiamo e che vogliamo? Perchè abbiamo, di fatto, smesso di essere noi stessi per soddisfare gli altri?
Quando sacrifichiamo la nostra essenza e ci mostriamo come vogliono gli altri, paghiamo un prezzo troppo alto per ottenere approvazione e un falso sentimento di apprezzamento. Perché in realtà non siamo noi a piacergli, ma la nostra apparenza. Il riflesso che mostriamo loro.
Non siamo coscienti del fatto che la vita non consiste nel sacrificarsi per farsi accettare dagli altri, bensì nello scoprire se stessi per poi offrire il meglio di sé.
Se decidiamo di essere quello che gli altri desiderano, ci renderemo vulnerabili alle loro manipolazioni e al malessere generato dall’essere chi non siamo.
Ci troveremo in un permanente stato di allerta, soprattutto di fronte alle possibili disapprovazioni.
Quando rendiamo la vulnerabilità la nostra padrona, la nostra autostima cala a picco. Per questo motivo, dipendiamo dagli altri per essere felici, ma alla fine non ci riusciamo neppure così.
Quando i sacrifici si pagano con l’affetto
Ma quali sono le radici di un cosi forte “senso del sacrificio”?
Con molta probabilità coloro che hanno questa caratteristica sono bambini diventati adulti precocemente, che troppo presto sono cresciuti per soccorrere e accudire figure genitoriali in difficoltà o eccessivamente richiedenti, spesso anche poco vicine affettivamente.
Se il bambino ha sperimentato che per essere amato deve accondiscendere ai bisogni dell’altro rinunciando ai propri, da adulto instaurerà e perpetuerà relazioni nelle quali faticherà a bilanciare quanto dà, in rapporto a quanto riceve dagli altri.
Oppure si tratta di persone cresciute in “famiglie sacrificanti”.
Le “famiglie sacrificanti” sono quelle che educano al “doversi sacrificare” i membri che la compongono,che coltivano la necessità di rimandare i propri desideri e bisogni a favore del benessere familiare.
I suoi principi possono essere riassunti con “sacrificarsi significa essere accettati” o “dare la priorità ai bisogni altrui per non essere la pecora nera”. Il punto chiave della loro visione del mondo e della famiglia risponde principalmente al dover preservare un’accondiscendenza continuativa nei confronti dei bisogni e dei desideri altrui, considerato essenziale per garantire la stabilità e l’accettazione dell’altro membro.
La famiglia cresce e invecchia con quest’obbligo, che viene ereditato dai discendenti.
Da un punto di vista psicologico se il sacrificio non è orientato ad ottenere un bene funzionale prossimo diventa un’inutile frustrazione.
Non prendiamocela, quindi, con chi non vuole sacrificarsi senza motivi funzionali e prossimi, semplicemente ha scelto di vivere al meglio il qui ed ora.
Autore © Dott. Marco Forti.
Psicologo, Psicoterapeuta & Sessuologo Clinico
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