Senso di colpa e Responsabilità!
Il senso di colpa, costituisce uno dei nodi centrali della sofferenza umana, perché porta con sé conflitti, disturbi, ansia, angoscia, panico, rabbia, patologie …. non rende liberi di essere sé stessi.
Consiste nella sensazione di aver commesso una colpa, di aver compiuto un errore fatale per qualcuno o comunque di aver commesso qualcosa di sbagliato.
“Fatale” nel senso più ampio del termine. Non necessariamente riguarda un effetto oggettivamente nefasto, con conseguenze lesive o dannose a livello concreto o reale. Fatale perché c’è la sensazione di aver creato un danno irreparabile, un evento “catastrofico”, al di là di ogni possibile realtà, di ogni esame oggettivo.
Di fatto, chi si sente in colpa si assume una responsabilità che non gli compete e si accusa di aver agito male o di aver mancato nell’agire. O ancora più in profondità, la sensazione di essere sbagliati nell’essenza di fondo: “Cattivi”, “Stupidi”, “Incapaci”, “Malefici”, “Ingrati”, “Egoisti”, “Insensibili”, “Privi di valore”….
Ci si sente inadeguati!
Ma il radicato senso di inadeguatezza non pertiene solo l’ambito in cui insorge, bensì tutti i campi di vita, perché il senso di inadeguatezza riguarda la persona stessa nella sua essenza!
Mentre il concetto di responsabilità è maggiormente obiettivo e privo di giudizi, riguarda qualcosa di realistico e oggettivabile, il Senso di Colpa è caricato di un giudizio di valore, di un carico emotivo e concreto eccessivo. Tale natura è determinata proprio dal luogo di insorgenza, dall’origine, di solito in famiglia nell’infanzia, per meccanismi emotivo-irrazionali più o meno inconsci. Come tali, difficilmente visibili e scardinabili.
Ma in che modo il Senso di Colpa, costituisce un nodo della sofferenza?
Bhe, il giudizio, il sentirsi colpevoli, fa sentire incapaci, impotenti, inetti, sbagliati, insufficienti, cattivi, indegni. Inadeguati, quindi mai abbastanza meritevoli di alcunché, mai alla pari con gli altri, mai portatori di un diritto e di un bisogno!
Quando un individuo viene caricato di eccessiva responsabilità, ma soprattutto di responsabilità che non gli competono ed un bambino non può certo farsi carico delle cose degli adulti, di ruoli e compiti più grandi di lui/lei, il finale sarà sicuramente fallimentare, col conseguente risultato del sentirsi incapace, inetto.
C’è sempre un danno/torto da riparare. La vita quindi non ti appartiene né in origine né come conseguenza.
In verità, non si tratta di un’incapacità ma di un’impossibilità obiettiva.
Guardiamo ad esempio il legame genitori-figli, i figli caricati della responsabilità della felicità del genitore,
I figli, devono rendere gioiosi, soddisfatti, orgogliosi, soddisfatti, devono dimostrare di meritare tutto quello che viene fatto per loro, tutti i sacrifici e le rinunce dei genitori. E’ necessario che rispondano allo stesso livello, dimostrando di non aver sprecato la vita di chi si prende cura di loro, rinunciando a loro volta alle proprie aspirazioni, desideri, sogni.
Ma in che modo avviene questo?
Per lo più in modo inconscio e sicuramente senza il desiderio di nuocere, il primo intento è fare tutto il bene possibile dei figli. Di fatto si dice o si fa capire che si è rinunciato a tutto per loro, che sono diventati il primo e unico oggetto d’attenzione, di impegno, di lavoro, di gioia …… Accompagnando queste frasi o atteggiamenti con forti carichi emotivi, se ne accresce il senso e la drammaticità. Teniamo presente che questi temi emergono proprio nei momenti difficili delle persone, in momenti economicamente, emotivamente, socialmente complicati e fallimentari, con il rischio che i figli sentano un carico che va ben oltre. Ed è proprio qui che si crea l’incastro!
Facciamo l’esempio del genitore che perde il lavoro e si sente in difficoltà economiche ma anche depresso, deluso, fallimentare e chieda al figlio di stare con lui/lei tutto il giorno per fargli compagnia.
Il figlio/a, che naturalmente ha i suoi obiettivi, impegni, interessi, la sua vita, si sentirà in difficoltà, in un conflitto di scelta, soprattutto se il genitore gli pone la cosa in modo ricattatorio “in fondo lui fa tutto per farlo crescere e fargli fare tutto ciò che desidera, ora che ha bisogno è il minimo che il figlio lo ripaghi in questo momento difficile”. Il figlio/a sentirà la richiesta, accompagnata, non solo dal piacere di stare con lui/lei, ma anche la grande voragine emotiva che sovrasta il genitore e se non lo accontenta può sentirsene responsabile. In ogni caso qualunque cosa farà, non sarà sufficiente, non ha né la funzione, né la capacità di riempire quella voragione.
E sarà colpa sua se il genitore continuerà a sentirsi così depresso, non è stato in grado di valere i suoi sforzi, di ripagarlo e di farlo essere felice ed orgoglioso.
I genitori hanno rinunciato alla vita, dunque anche i figli sono tenuti a farlo, pena sentirsi cattivi, menefreghisti, in colpa appunto!
Ma cosa significa, fare i bravi figli, ottemperare alle aspettative?
Difficile da dirsi. Sì, potremmo pensare che riguardi alcune fondamentali condotte, tipo essere persone studiose, corrette, lavoratrici, oneste, colte, educate, fare il proprio dovere in casa, ecc.
Ma poi?
Credete che sia finita qui?
Non credo e soprattutto non lo sa un figlio, ma intuisce che c’è sempre altro, anche se questo altro non è così chiaro ed esplicito. E poi, cosa significa, in che modo si deve tradurre questo essere corretti, studiosi, lavoratori, educati? Qual è il modo giusto?
Ci sono mille modalità, ma il proprio sembra non andare mai bene.
Il risultato è che il/la figlio/a vive guardando sempre al genitore, prendendolo come punto di riferimento, non si incentra su sé, non vive in base al proprio sentire, ma sulla base di un supposto volere dell’altro, in base al suo benessere, salute, ecc. Come se ci fosse un modo giusto e uno sbagliato: il proprio è sempre sbagliato!
A complicare ulteriormente c’è da dire che spesso, non è esplicito né esplicitato ciò che il genitore si aspetta ed il figlio traduce nel proprio vissuto, ciò che crede il genitore si aspetti. Diventa un gioco di specchi, dove la realtà si deforma sempre più e si deforma anche la responsabilità che va ad ingigantirsi, ora da una parte ora dall’altra.
Dall’altra infatti pensiamo al genitore che nonostante tutti gli sforzi vede il figlio non soddisfatto, sempre triste, scontento, arrabbiato, magari inconcludente. A sua volta si chiederà dove ha fallito, in cosa non è stato capace.
E’ come vivere con un peso imponente ed invisibile sulle spalle, rimbalzato e accresciuto da una parte e dall’altra.
Immaginiamo poi quando esiste un reale problema nell’altro, quando il genitore soffre per una malattia organica, per un disturbo emotivo, psichico che rende impossibile e irraggiungibile l’obiettivo di renderlo felice.
Non basterà mai!
Ecco che il senso di colpa, l’irrealistica sensazione di doverci fare qualcosa creerà una serie di disturbi e malesseri, quali ansia, depressione, oscillazioni d’umore, instabilità affettiva e relazionale, dipendenza emotiva, paura continua, disturbi psicosomatici, agitazione motoria, disturbi del comportamento, incapacità a mantenere l’attenzione, ecc.
Qualcuno l’ha definito “furto d’identità”, ovvero il figlio cresce senza il diritto ad una propria identità, pena la sofferenza del genitore. Si crea uno scacco d’amore, un ricatto, “Se mi ami, devi acconsentire a questo ….” E’ sempre l’altro, il suo volere, i suoi bisogni ad essere in primo piano ed il bambino, poi ragazzo e infine adulto, non potrà mai sentirsi padrone di sé e si sentirà sempre responsabile di quanto succede al genitore e un po’ per contagio anche ad altre persone importanti della sua vita.
Il senso di colpa crea un legame profondo, nascosto e patologico. Essendo responsabile del benessere dell’altro, non può certo permettersi di mollarlo, di farlo soffrire, non può, non ce la fa a tollerare questo grande peso. In compenso, ci guadagna qualcosa che mantiene il legame patologico. Ci guadagna che si illude di avere potere, di avere un ruolo sugli altri, di avere delle capacità illimitate e irrealistiche. Proprio per questo potere non potrà essere abbandonato, è troppo importante per la propria famiglia. Questo permette di tollerare il senso di inutilità, di impotenza e di vacuità inevitabili.
Il legame d’amore crea confusione, impedendo un obiettivo esame di realtà, dei propri confini, limiti e competenze
Chi non possiede il diritto a sé, alla propria identità, alle scelte, agli errori, ai sentimenti, non possiede nulla, non ha nessun potere in assoluto. Ma la realtà non conta, conta quello che si crede. La persona è incapace di portare avanti sé, ma è convinta che ha la facoltà di indurre nell’altro benessere o malessere, guarigione o malattia, speranza o disperazione.
Il senso di colpa origina e si mantiene dal mancato diritto alla vita. C’è una sorta di incapacità a prendersi il diritto alla vita, alla propria vita, che impone un motivo esterno a sé, per poter scegliere, fare, dare, prendere ….. fino ad arrivare ad estremi veramente estremi. Non è possibile accogliere ciò che si sente, si desidera e si aspira come motore nella vita, ma è indispensabile aderire a dei modelli “giusti” “imposti, richiesti o suggeriti” da chi ci vuol bene.
Se così com’è non va bene al punto di dover aderire alle aspettative in famiglia, così com’è non può andare bene neanche fuori della famiglia. Vivrà sempre nascondendo sé stesso, come individuo indegno.
Non solo in famiglia non ci sarà il senso di una piena accettazione, ma anche fuori, non ci sarà possibilità di essere semplicemente, fidandosi nelle proprie buone emozioni, volontà e capacità. Oscillando fra l’adesione incondizionata, l’incapacità ad osare e la ribellione rabbiosa.
Non c’è posto per la sperimentazione serena di sé. Si crea così perdita di contatto con i propri bisogni e desideri. L’individuo non sa più cosa realmente desidera.
In questa dimensione, il rapporto con gli altri suonerà come un bel rompicapo. Con l’autorità, con chi detiene ruoli superiori (a lavoro, nel rappresentare la legge, a scuola, ecc.) vivrà sempre un senso di indegnità e inferiorità, temendo sempre la critica che gli verrà mossa. Si sente niente agli occhi di chi ha un ruolo autorevole e autoritario.
Sarà un rapporto veramente faticoso, costituito da sforzo, obbedienza e/o disobbedienza, umiliazione e contrimento, talvolta ribellione insensata.
Nei rapporti alla pari, non sarà mai alla pari, ma nelle situazioni migliori riuscirà a nasconderlo meglio, potrà confondersi nella routine quotidiana.
Ma la relazione peggiore risiede con sé stesso verso sé. Non si sentirà mai degno, né alla pari, imponendosi di nascondersi e non mostrarsi per ciò che è realmente. L’individuo vive sempre nella rabbia e nella desolazione di essere “sbagliato”!
Una rabbia costante, macerata e macerante, carica di mille sfaccettature, che rodono non solo la serenità ma anche la salute e le risorse organiche, innescando un abbassamento delle difese immunitarie e una serie di disturbi esplosivi e cronici. Il mancato possesso della propria emotività e del pensiero, riduce anche il possesso della salute globale.
La solitudine ed il vuoto interno rappresentano la costante! La persona si sente inadeguata, vuota e malandata, non sa comprenderne l’origine, rafforzando senso di inutilità e insignificanza.
Il senso di in-adeguatezza, toglie la padronanza di sé e della propria casa, non ci si sente adeguati, nel proprio corpo, nella propria identità, nel diritto alla propria vita con tutte le sfaccettature possibili. Si vive sempre un po’ trattenuti, frenandosi, con un elastico che senza consapevolezza tira indietro, perché sotto ogni iniziativa c’è sempre la vocina, la sensazione, il timore, di non essere all’altezza, di non poter osare, di non possedere diritto al pari degli altri.
C’è il vuoto, solitudine e una vita inespressa!
fonte: http://www.nienteansia.it/articoli-di-psicologia/psicologia/senso-di-colpa-e-responsabilita/9299/#more-9299
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