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Chiedere aiuto: un passo difficile. Perchè?

Chiedere aiuto non è un’operazione semplice. È un processo che, nel rispetto e nella complessità di ciascun caso, si costruisce in tempi anche molto lunghi, in cui la persona cerca risposte e soluzioni proprie e possibili alternative ai problemi che vive.

Chiedere aiuto è già un primo punto di arrivo di un lavoro interno e gli affetti che si mobilitano sono tanti e diversi. La frustrazione, la rabbia, il senso di sconfitta e di disistima personale, la percezione di scarsa autoefficacia nella risoluzione dei propri problemi, la vergogna nel portare contenuti molto intimi ad un estraneo.

Ci si rivolge, per questi motivi, allo specialista sempre con ambivalenza. Bisognosi e speranzosi di aiuto e comprensione da un lato ma anche preoccupati dall’altro, arrabbiati per sentirsi “costretti” a provare “l’ultima spiaggia”, molto diffidenti e spesso poco disposti a comunicare temi che emergeranno solo gradualmente nel corso del lavoro. Talvolta, contattato lo specialista, l’obiettivo iniziale è quello di accogliere tutte queste preoccupazioni e metterle a disposizione del processo che si avvia. Pensiamo, poi, agli aspetti implicati nell’invio di un terzo: un figlio ad esempio. L’elemento della colpa per non essere “buoni genitori” mista alla vergogna di avere un figlio “problematico” (soprattutto in alcuni retroterra culturali) diventano cruciali. Si notano – da parte dei genitori ma non solo, in maniera più o meno implicita, anche da parte della stessa persona che fa la richiesta di aiuto (auto diretta) –  reazioni particolari: oppositività, svalutazione, critica, dubbi, veri e propri “attacchi” al valore della terapia, all’utilità del lavoro psicologico, alla validità e all’integrità etica dello specialista. Affetti, questi, che non solo faranno da sfondo all’intero processo terapeutico (resistenze), ma nascondono altro come paura e anche invidia nei confronti di chi si dovrebbe fare carico di offrire l’aiuto richiesto.

Citando Marsya Gino: “La cosa che soprattutto disturba alcune persone è che un altro possa capire  delle cose che loro ancora non sanno, non tollerano che qualcuno sappia qualcosa che lui non sa ancora” o, aggiungerei, abbia quegli strumenti utili affinché le difficoltà portate poco alla volta possano essere comprese e risolte; queste persone – continua Masrya Gino – “Già si sono fatte una diagnosi, già si sono fatte un’immagine della loro malattia, già sanno perfettamente chi sono e perché stanno male”.

Questa mole di emozioni, credenze, affetti e pensieri vanno accolti, devono essere lavorati, poi interpretati per costruire quello spazio così particolare della terapia. Uno spazio in cui l’altro si sente, come mai in vita sua, non giudicato per le sue fragilità e per i suoi aspetti più “inaccettabili”, ascoltato in maniera non passiva ma costruttiva oltre che attiva, e cooperante all’interno del lavoro. Questo è necessairo per muoversi verso il cambiamento (piuttosto che definirla “guarigione”), con tutto ciò che esso implica e rappresenta in termini di crescita e di nuovi equilibri da raggiungere. Un cambiamento che aiuti l’altro ad accogliere aspetti di sé stesso, della sua mente, del suo mondo interiore che genera proprio il loop problematico da cui si cerca di venire fuori. Elementi spesso rimossi, scissi, tenuti fuori e che occorre integrare. Pensando a ciò che dice Roycoft “Cerchiamo di far funzionare i pazienti con una migliore integrazione delle componenti interiori” aiutandoli a costruire nuove risposte e nuove soluzioni ai suoi incastri interiori, tenendo a mente che ciascuno di noi, come qualsiasi organismo vivente, cerca di sopravvivere e lo fa con tutto ciò che possiede e può. Strutturazioni specifiche della personalità, anche sintomi, distorsioni caratteriali; ciò che siamo, tutto ciò che diventiamo: in qualsiasi direzione vada, è il meglio che possiamo essere, spesso, per evitare il peggio. Tenere nella mente questa verità – che riguarda tutti – è una priorità per consentire a ciascuno la migliore via che può permettersi di percorrere e accompagnarlo proprio in quella direzione nel modo migliore che può fare il clinico.

Fonte: http://www.dialogopsicologia.it/articoli/psicologia_clinica/Chiedere_aiuto_un_passo_difficile.html

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