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Perché alcune persone pensano di essere invulnerabili al COVID-19?

Possibili risposte al perché alcune persone ignorano le linee guida.

I consigli sulla salute, sia nella pandemia attuale che in generale, sono efficaci solo se le persone si considerano a rischio. In caso contrario non altrettanto. I media riportano un gran numero di persone che continuano a svolgere le proprie attività quotidiane anche lontani dai loro domicili e senza adeguata giustificazione.

L’idea che il virus non possa infettarti è forse più evidente negli adolescenti e nei giovani adulti, anche in virtù della costante segnalazione che sono gli anziani ad essere maggiormente a rischio.

È stato proprio con loro che l’emergenza coronavirus e la conseguente necessità di rinunciare a consolidate abitudini di vita, che si sono avute le maggiori difficoltà di adattamento.

Tuttavia non è necessario essere giovani o giovanissimi per percepirsi affetti da questo tipo di invulnerabilità, che non si applica solo alle epidemie o alle malattie, considerando, come altro esempio, tutti gli incidenti ed i decessi legati al bere e  alla guida, nonostante i numerosi divieti e conseguenze penali.

Secondo gli studi esiste una sorta di “invulnerabilità percepita”, un pregiudizio ottimista, descritto come una idea, credenza di immunizzazione contro i rischi: una forma, di fatto di pregiudizio cognitivo.

Quante persone si sentono protette da questa personale “ credenza ” non è possibile quantificarlo; l’età può essere un fattore predittivo della percezione dell’invulnerabilità, ma vi sono persone di tutte le età che si considerano “troppo sane” per ammalarsi, sia per l’attuale pandemia che per malattie croniche.

Per riassumere , tutti hanno, ad un certo punto della loro vita o un altro, escogitato una credenza personale. Introdurre una nota di realtà in questo aspetto pregiudiziale potrebbe essere il modo migliore per evitare di entrare nel mito dell’invulnerabilità.

Il rischio contagio e l’effetto ‘corazza’

Perché non è sufficiente conoscere per evitare il rischio, soprattutto tra alcune categorie di persone?

Da sempre le campagne informative per favorire la salute e il benessere non funzionano con tutti in quanto proprio per certi individui, trasgressione e superamento dei limiti servono per affermare se stessi, la propria autonomia, le proprie capacità di decisione che sono fortemente separate dagli altri.

Inoltre determinate persone si caratterizzano per la percezione di controllo personale che ritengono di avere sugli eventi e sulle proprie azioni.

L’esempio è compiere azioni pericolose (in questi giorni i raggruppamenti) per dimostrare che sono in grado di vivere senza subire alcun danno.

I comportamenti a rischio hanno lo scopo di affermare la propria capacità di controllo sulla realtà, senza sapere che questa percezione di invulnerabilità è per lo più illusione e può avere conseguenze mortali.

Quali  altri fattori influenzano il rispetto di queste regole?

Il comportamento e le decisioni che prendiamo sono influenzate da diversi fattori, ma voglio soffermarmi sue due condizionamenti specifici : l’esperienza diretta “mi avvicino troppo ad una fiamma e mi scotto”, o l’esperienza trasmessa a parole , “…non andare dove non si  tocca che anneghi”.

La prima è “sine ullo dubio” la più efficace, l’esperienza diretta funziona nel far percepire meglio alle persone l’insegnamento.

C’è un altro aspetto: se si viola la regola  di non uscire di casa,  la conseguenza non è  immediata, diretta e naturale, non è come “se infili una mano nell’acqua bollente ti ustioni”. L’effetto del contagio non è lineare e immediato e la probabilità (o quanto meno il pensiero) di sfangarla pure e questo complica la situazione.  La catastrofe è in arrivo, ma non è ancora visibilmente presente, pertanto è facile atteggiarsi in modo superbo all’invito di restare a casa.

Infine c’è un altro fattore per cui gli individui hanno un atteggiamento sprezzante nei confronti dei consigli dei professionisti di salute pubblica, che chiama in causa la possibile reazione a regole che minacciano o limitano alcune libertà di azione.

Per questo nelle situazioni in cui le libertà individuali sono ridotte o a rischio di riduzione, le persone sembrano motivate a riconquistare tali libertà. Cioè, quando ci viene detto che cosa fare o non fare, una parte di noi è spinta a fare il contrario: popolarmente questo atteggiamento viene riassunto dalla frase “tutto ciò che è proibito è desiderabile” (antico proverbio arabo).

L’avversione  è l’altra faccia della medaglia della compliance e dell’aderenza, termine con cui si indica il comportamento di seguire le prescrizioni e le indicazioni terapeutiche ( i medici conoscono bene questo problema, in quanto il 50 % dei pazienti sembra non seguire correttamente le indicazioni terapeutiche).

La mia personale considerazione è che la soluzione lockdown, cioè chiusura totale delle attività-rimanere a casa, è necessaria ma non affatto è sostenibile a lungo.

Se si adottano strategie di tracciamento dei contatti come quelle adottate in Cina, Korea, Singapore, questa fase deve essere limitata nel tempo: dipende dalla capacità della popolazione di seguire disciplinatamente le regole, in ogni caso possiamo ragionare in termini di settimane , ma non di mesi d’ isolamento pressoché  totale.

Presumo che anche nel caso dell’epidemia COVID-19  test, distanziamento sociale ed igiene perdureranno come abitudini da sostenere per tot tempo, ma si elimineranno le forme più severe di restrizione e  si farà riprendere la vita e l’attività di molte persone, con buona pace dei molti sceriffi da balcone.

Autore © Dott. Marco Forti.

Psicologo, Psicoterapeuta & Sessuologo Clinico

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