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DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO: L’ESPOSIZIONE CON PREVENZIONE DELLA RISPOSTA COME PRATICA DELLA ACCETTAZIONE

L’esposizione con prevenzione della risposta è la tecnica con maggior efficacia misurata nella terapia del Disturbo Ossessivo-Compulsivo e di altri disturbi d’ansia. Esistono, tuttavia, delle  difficoltà di ordine pratico come  la difficoltà di accettazione da parte di molti pazienti  ad intraprendere  il trattamento e un numero elevato di  drop out.

Queste difficoltà riducono l’applicabilità e quindi l’efficacia dell’intervento.

Dalla necessità di superare i limiti tecnici ora descritti, deriva l’opportunità di comprendere meglio il meccanismo di funzionamento dell’E/RP; lo scopo, è che comprendendo meglio il meccanismo di azione, sia possibile organizzare l’E/RP in un modo più consono alle difficoltà e alle esigenze della persona affetta dal disturbo.

Il primo obiettivo è  esaminare in  maniera critica  le spiegazioni  (alcune comportamentali quali l’abituazione, l’estinzione, il controcondizionamento;  ed altre  relative a cambiamenti cognitivi: l’autoefficacia, l’aspettativa e la ristrutturazione cognitiva) proposte per il meccanismo d’azione dell’E/RP.

Il secondo obiettivo è presentare un’interpretazione dell’efficacia dell’E/RP basandoci sulla considerazione che il meccanismo d’azione dell’E/RP consista in un processo cognitivo che conduce all’accettazione di livelli di minaccia via via più elevati, in sostanza considereremo la E/RP come una pratica dell’accettazione.

L’esposizione con prevenzione della risposta (E/RP) è un intervento di dimostrata efficacia per il trattamento dei disturbi d’ansia, in particolare per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) . Molti studi evidenziano come l’efficacia della E/RP nella riduzione o scomparsa dei sintomi, si mantenga stabile nel tempo per la maggior parte dei pazienti che completano il trattamento. Inoltre, il cambiamento sintomatologico non si risolve semplicemente in uno spostamento del sintomo, ma esita in un cambiamento esteso e stabile.

Nel DOC tali dati relativi alla efficacia a lungo termine della E/RP sono sostenuti da un maggior ricorso a meccanismi di difesa più sani e adattivi quali l’umorismo, la soppressione e la sublimazione, e alla riduzione dell’utilizzo di difese maladattive, come ad esempio l’annullamento. La riorganizzazione delle difese in seguito al trattamento con E/RP inducono  a ritenere  che il cambiamento implicato nella tecnica sia un cambiamento che modifica profondamente e stabilmente l’organizzazione dell’individuo.

D’altra parte l’E/RP ha dei limiti di applicabilità non indifferenti che ne limitano l’efficacia. Circa il 20% – 30% di pazienti affetti da DOC si rifiuta di intraprendere questo intervento o interrompe il trattamento. L’E/RP risulta di più difficile applicabilità in pazienti caratterizzati da una sintomatologia covert, come nel caso dei rituali mentali o delle rimuginazioni nel DOC. Infine, sempre nel DOC, circa il 20-25% dei pazienti non migliora dopo il trattamento o i miglioramenti sono spesso limitati.

Posto il problema di verificare l’efficacia dell’E/RP e fermo restando che questo trattamento è sempre accompagnato da interventi cognitivi (di incoraggiamento, di motivazione, oppure di accettazione della minaccia e della sofferenza emotiva) come si evince dall’esperienza, si pone il problema di comprendere quali siano gli interventi cognitivi più adeguati da mettere in atto durante tale procedura al fine di migliorarne l’applicabilità e l’efficacia.

Alla luce di quanto detto deriva l’importanza di comprendere il meccanismo d’azione dell’E/RP; in sostanza di rispondere alla domanda, perché l’E/RP funziona, e perché funziona solo in alcuni casi e non in altri?

La E/RP è nata in ambito comportamentista e dunque si tende a dare per scontato che essa agisca a livello comportamentale o per meglio  dire a livello  delle associazioni  neurali che  sottendono le relazioni funzionali tra stimoli, risposte e rinforzi.

Vi sono diverse spiegazioni sul perché la E/RP sia efficace: accanto a quelle di matrice comportamentiste, troviamo diverse interpretazioni cognitiviste, ma anche  integrazioni fra spiegazioni di  natura differente.

Per introdurre la questione conviene innanzitutto chiarire che la esposizione e prevenzione della risposta è una tecnica di intervento in cui sono definiti i passi necessari e sufficienti per produrre un effetto terapeutico, ma definire gli ingredienti procedurali di un intervento terapeutico non risolve il problema di spiegare perché tale procedura abbia tali effetti. Sappiamo che la E/RP è efficace, ma  sappiamo perché.

Esamineremo ora alcune spiegazioni della efficacia della E/RP che sono state avanzate nella letteratura clinica.

Se  pure il livello di ansia e l’attivazione fisiologica diminuiscano nel corso della esposizione, non è un dato sufficiente per poter sostenere che il solo processo di abituazione spieghi gli effetti terapeutici della E/RP. Infatti l’abitazione ha due caratteristiche almeno che non si riscontano tra gli effetti della E/RP.  In primo luogo l’abituazione è un fenomeno di breve durata, vale a dire che ci si abitua allo stimolo in conseguenza  di ripetute esposizioni,  ma per periodi di tempo piuttosto brevi contrariamente agli effetti della E/RP. In secondo luogo, la ripresentazione di un nuovo stimolo, soprattutto se intenso, causa disabituazione, producendo un aumento della forza della risposta, dunque la sensibilizzazione che ripristina le risposte difensive e inverte gli effetti della abituazione.

Se la E/RP funzionasse solo per abitazione allora dovremmo trovare effetti di durata limitata e frequenti sensibilizzazioni, di fatto non si osserva né un fenomeno né l’altro.

Una condizione indispensabile per l’applicabilità della E/RP è che il paziente sia vigile e,  quindi, attivamente coinvolto nella costruzione della propria esperienza. E’ ovvio che in tale procedura entrino in gioco altre componenti cognitive. Più complesse sono le relazioni che si pongono tra aspetti cognitivi e E/RP; ne possiamo identificare almeno tre tipi:

  • la prima considera i cambiamenti cognitivi semplicemente una conseguenza della E/RP;
  • la seconda è quella in cui gli interventi volti ai cambiamenti cognitivi sono considerati esclusivamente propedeutici alla E/RP;
  • l’ultima, che ci interessa più da vicino, è quella che considera i cambiamenti cognitivi come i principali meccanismi d’azione della E/RP.

La relazione del primo tipo è stata pocanzi  analizzata e  ne sono stati evidenziati i limiti esplicativi.

Nella relazione del secondo tipo ritroviamo tutti quegli interventi indirizzati all’incoraggiamento e alla motivazione  del paziente. Diversi clinici ritengono che al fine di superare una serie di difficoltà di applicazione della E/RP siano necessari degli interventi motivazionali di carattere cognitivo, ma postulano che tali interventi siano esclusivamente propedeutici all’applicazione di questo intervento.

Nel terzo tipo di analisi del problema vari autori hanno cercato di spiegare il meccanismo di funzionamento della E/RP in termini di modificazioni cognitive; qui ci limiteremo a descrivere le più conosciute e le più importanti, ovverosia le spiegazioni in termini di aspettativa, di incremento della Autoefficacia e di Ristrutturazione Cognitiva.

Con il termine autoefficacia si intende una percezione positiva  delle proprie capacità di padroneggiamento di situazioni problematiche.

La riduzione della paura a seguito della E/RP potrebbe essere spiegata come il risultato dell’incremento della auto-efficacia. Il paziente grazie alla esposizione, soprattutto se graduale, si renderebbe conto di essere capace di rimanere calmo di fronte ad eventi per lui spaventosi e questo aumenta il suo senso di autoefficacia. La consapevolezza di essere in grado di rimanere calmi di fronte ad un evento che suscita paura, può far diminuire la paura stessa e questo stesso meccanismo riesce ad implicare una diminuzione della percezione del pericolo.

Sono state poi proposte almeno due spiegazioni  del funzionamento  della E/RP  in termini  di  variazione della aspettativa di successo da parte del paziente.

La prima ritiene che l’E/RP funzioni nei soggetti poiché durante la procedura espositiva il terapeuta favorisce una aspettativa di successo; inoltre, il procedere nella gerarchia genera un feedback confirmatorio sulla possibilità di successo; ed infine, il paziente impara a gestire le immagini spaventanti.

La seconda ipotesi si fonda su un aspetto della letteratura che evidenzia come i soggetti con disturbi d’ansia tendano ad immaginarsi maggiormente spaventati, di quello che in realtà sono, quando vengono esposti allo stimolo fobico. Tale fenomeno si spiega come dovuto alla sovrastima dei segnali di pericolo ed alla sotto stima dei segnali di sicurezza. Durante la terapia espositiva il paziente si accorgerebbe che nella realtà, al contrario delle  proprie aspettative, il dato non è così pericoloso, ottenendo  delle evidenze correttive alle proprie aspettative.

L’assunto di base della ristrutturazione cognitiva risiede nel fatto che le emozioni ed i comportamenti siano la conseguenza di ciò che si pensa. Si ritiene, quindi, che modificando le cognizioni si ottenga necessariamente una modifica dei comportamenti e delle emozioni. L’obiettivo della ristrutturazione cognitiva è quello di aiutare le persone a comprendere che gli oggetti o le situazioni fobiche in realtà non sono pericolose, e che i comportamenti di ricerca di sicurezza (evitamenti, fughe, rassicurazioni, controlli, ecc.) messi in atto per impedire l’accadimento degli eventi temuti, producono un effetto di conferma delle cognizioni catastrofiche impedendo la falsificazione delle credenze stesse.

Altri autori sostengono che l’E/RP funzioni fondamentalmente perché l’esposizione del paziente alla situazione avversiva e il contemporaneo blocco dei comportamenti di ricerca di sicurezza porterà il paziente a confrontarsi con lo stimolo fobico sperimentando una realtà diversa e meno spaventante, rispetto alle proprie previsioni di pericolo. Il paziente potrà così effettuare una esperienza correttiva all’interno della quale si confronterà con dati diretti, ottenendo una riduzione dell’ansia e falsificando le proprie credenze catastrofiche. Successivamente tali contro esempi condurranno il paziente, tramite un meccanismo a feed-back positivo, a ridurre l’utilizzo dei comportamenti di ricerca di sicurezza, e così via.

Prendiamo il caso di un paziente esposto ad una situazione sociale temuta senza poter mettere in atto alcun comportamento di ricerca di sicurezza. Si accorgerà che non accadrà nulla di così catastrofico. Attraverso questa esperienza correttiva considererà le proprie previsioni errate e sperimenterà una riduzione dell’ansia. Ad esempio, un paziente, durante una cena galante, teme di versare il vino perché potrebbe tremargli la mano. La credenza catastrofica è quella di poter essere giudicato un inetto ed essere lasciato seduta stante dalla ragazza, disgustata dal suo comportamento. Il paziente metterà in atto una serie di comportamenti di ricerca di sicurezza: proverà a far versare il vino al maître, oppure cercherà di versarlo quando la ragazza si allontanerà per recarsi alla toilette, berrà poco per non doverlo riversare e così via.

Alla fine la goccia non cadrà e lui si sentirà salvo, per ora!

L’E/RP consisterebbe nell’andare alla cena e versare volontariamente un poco di vino sulla tovaglia, senza mettere in atto alcun comportamento di ricerca di sicurezza, al fine di poter fare una esperienza correttiva che consenta di mettere in discussione, attraverso un diverso epilogo ad esempio, la ragazza non dirà nulla riguardo la goccia di vino caduta sulla tovaglia, l’ansia diminuirà e la serata proseguirà. Questo aprirà la strada a credenze più realistiche.

Si riesce ad ottenere una E/RP efficace anche nei casi in cui non sono evidenti le falsificazioni delle credenze di pericolo, cioè, quando non  ci sono  contro-esempi. Difatti,  si utilizzano  con successo anche programmi di esposizione nei quali non è contemplata la comparsa di alcun contro-esempio: in pazienti ossessivi con timore di contagio da HIV, si può costruire una gerarchia di E/RP che comporti il toccare una siringa piena di sangue senza poter constatare nei tempi della esposizione che il contagio da HIV sia occorso o meno; in pazienti con Fobia Sociale che temono il giudizio degli altri non è quasi mai possibile, durante la terapia espositiva, verificare ciò che l’altro sta pensando e mettere, quindi, in discussione la propria previsione catastrofica.

Abbiamo analizzato una serie di possibili spiegazioni (l’abituazione, l’estinzione, il  controcondizionamento, l’autoefficacia, l’aspettativa e la ristrutturazione cognitiva) di come funziona l’E/RP presenti in letteratura. In questa sede, non possiamo quindi escludere che ognuno di questi processi intervenga durante la procedura di esposizione con prevenzione della risposta.

Veniamo ai possibili limiti: durante la pratica della E/RP è frequente che i pazienti abbiano una sorta di riserva mentale, vale a dire che mentre si espongono e rinunciano ai rituali, si ripromettano di svolgere i rituali più tardi: “poi, quando sarò a casa, sistemo di nuovo tutto”.

In questi casi, pur se lo svolgimento della E/RP e l’andamento delle reazioni del paziente è quello consueto, l’efficacia della E/RP può risultare  gravemente ridotta se non vanificata del tutto.

La differenza fra lo stato mentale che caratterizza  le E/RP efficaci da quelle inefficaci sembra  essere il  livello di minaccia che il paziente è disposto ad accettare, minimo in quelle inefficaci, alto in quelle efficaci.

Dal punto di vista terapeutico fa appunto una grande differenza se il paziente accetta di rinunciare alla difesa piuttosto che se continua a cercare di difendersi e non ci riesce. Larga parte della psicopatologia consiste nella percezione di minacce,  nelle conseguenze emotive di tali percezioni e nei tentativi di evitare, prevenire o sottrarsi alla minaccia. Per tale motivo la psicoterapia cognitiva si pone come meta proprio il cambiamento della percezione di minaccia.

Per raggiungere questo obiettivo  si procede  usualmente tentando  di modificare  le assunzioni di pericolo attraverso procedure ben note come il dialogo socratico, la scoperta guidata, la identificazione di ipotesi alternative. In pratica si coinvolge il paziente in confronto di empirismo collaborativo e lo si impegna a rintracciare esempi di ipotesi di sicurezza e contro esempi di quelle di pericolo. Questa strada è ostacolata, però, dalle resistenze cognitive del paziente, da qui l’esigenza di  identificare una  strada alternativa  che proceda verso lo  stesso obiettivo, la riduzione della percezione di minaccia, ma attraverso un percorso capace di aggirare le resistenze del paziente.

Si tratta della accettazione della minaccia.

L’osservazione di ciò che accade nei pazienti suggerisce che l’accettazione effettivamente possa essere un momento cruciale dell’intervento terapeutico.

Roberta era una paziente ossessiva la cui sintomatologia ruotava intorno al timore di potersi contagiare il cancro. Soprattutto  temeva di  abbassare la  guardia nei  confronti di  un possibile contagio per superficialità, sbadataggine e disattenzione. Sentiva infatti molto forte il timore di doversi rimproverare un domani di essersi contagiata il cancro. Le informazioni che le davano i medici si infrangevano contro il modo iper/prudenziale con cui Roberta le elaborava.”…. se i medici si sbagliassero? Mi dicono che non ci sono prove della contagiosità del cancro, ma non mi danno prove certe della sua non contagiosità, mica mi dimostrano con certezza che è impossibile., Non mi fido di loro e se dovessi abbassare la guardia e poi magari si scopre che ho ragione io?….. è chiaro che molto probabilmente hanno ragione i medici ed io mi sbaglio, ma come possono esserne sicura?…..”

Non c’era modo di superare la resistenza al cambiamento della sua idea di contagiosità del cancro. Un giorno, purtroppo, al marito fu diagnosticato un tumore. Nell’arco di poche ore, superato lo sconcerto iniziale, Maria cessò di considerare il cancro contagioso. Da notare che in quella tragica circostanza non ricevette alcuna informazione nuova riguardo la contagiosità del cancro, semplicemente rielaborò diversamente dal solito le informazioni  ricevute. Come mai? Attraverso quale meccanismo?

Una seconda osservazione clinica.

Il paziente, Matteo, aveva una grave forma di agorafobia con massicci evitamenti che implicavano  l’impossibilità di allontanarsi da casa se non accompagnato dalla moglie, ma soprattutto una  grave limitazione  delle sue  possibilità di  realizzazione  esistenziale. La minaccia che cercava di evitare era l’impazzimento che, a suo avviso, poteva seguire l’attacco di panico. A nulla valevano i tentativi dei medici di convincerlo della sostanziale innocuità delle sensazioni del panico e della impossibilità di diventare pazzo in conseguenza del panico. Un giorno, esasperato dalle limitazioni agorafobiche, decise che era preferibile rischiare l’attacco di panico e la follia piuttosto che continuare quel tipo di vita. Uscì dunque senza accompagnatore e non solo non ebbe alcun attacco di panico, ma soprattutto cambiò idea circa la possibilità di impazzire a seguito delle sensazioni del panico. Perché?

Per rispondere alle domande  sollevate è  opportuno riconsiderare gli  esempi riportati e interrogarsi su ciò che li accomuna. In ambedue i casi si intuisce che il cambiamento delle idee di pericolo avvenne, anche se in modi e per ragioni diversi, dopo che i pazienti avevano accettato di ridurre l’impegno preventivo e di esporsi ad un livello di rischio maggiore di quanto  fossero disposti precedentemente.

Roberta, infatti, a seguito della diagnosi subita dal marito aveva realizzato che la responsabilità per un eventuale contagio del cancro era ben poca cosa a fronte al dispiacere di non stare accanto al marito malato, Matteo si era reso conto che tutto sommato era più conveniente affrontare il rischio di  impazzire, rispetto  alla certezza di continuare a limitare la  propria vita a causa degli evitamenti.

Entrambi i pazienti quindi avevano accettato un livello di rischio maggiore di quello che erano disposti inizialmente a correre e, di conseguenza, era diminuito il rischio al quale si sentivano esposti.

Si pongono, dunque, alcune questioni:

  • Perché la diminuzione dell’impegno all’evitamento e il parallelo aumento del livello di minaccia accettabile implica un cambiamento delle idee di pericolo?
  • Come si può aiutare la persona ad aumentare il livello di minaccia che è disposto ad accettare?

È intuitivo che per ridurre la minaccia percepita si possa agire in diverse direzioni.

  1. Si può cercare di ridurre la probabilità dell’evento dannoso;
  2. Si può allontanare l’evento dannoso nel tempo;
  3. Ci si può rendere più capaci di fronteggiare l’evento temuto;

In tutti quei casi, dove non è possibile abbassare il rischio, si tende ad accettare un livello di rischio maggiore.

Banalmente, a volte la prudenza non è praticabile, almeno non tanto quanto desidereremmo, e dunque ci rassegniamo a correre dei rischi e non insistiamo nel tentativo di ridurre la minaccia per la semplice ragione che ci appare inutile.

A ben vedere, il quanto ci impegniamo a ridurre il rischio e quanto invece siamo disposti a correrlo dipende, plausibilmente, anche dal grado di convenienza dell’impegno stesso, che non è dato soltanto dalla gravità della minaccia percepita e dai risultati che si ritiene di poter ottenere, ma anche dai costi percepiti della attività. È evidente che sarò disposto a prendere più provvedimenti prudenziali, quanto meno mi costano e viceversa accetterò di correre un rischio maggiore se il costo  della prudenza  è molto  elevato. Ad esempio se  il costo  dei controlli  dei  sistemi di sicurezza dell’automobile è molto alto, cioè il meccanico mi chiede 1000 euro e una settimana di tempo per  controllare la  pressione dei  pneumatici, allora  tenderò a  rinunciare al controllo preventivo e dunque accetterò di viaggiare con un rischio maggiore.

Non si deve trascurare l’intervento di fattori etici nella determinazione dell’impegno e dunque nella accettazione. Se si ritiene di avere il dovere di ridurre una minaccia allora si tende, comprensibilmente e a parità delle altre condizioni, ad aumentare l’impegno e, inversamente, è più difficile accettare di abbassare la guardia se ciò implica il venir meno ad una propria responsabilità, cioè una colpa.

L’atteggiamento che abbiamo di fronte alle minacce, tuttavia, può essere molto differente, nel senso che l’investimento nel tentativo di allontanare o ridurre la minaccia può variare grandemente, si va infatti da un massimo di impegno preventivo, alla accettazione totale del rischio con conseguente rinuncia a  qualunque protezione. Nella maggior parte dei casi della nostra vita quotidiana tendiamo a contenere l’impegno preventivo e ad accettare un certo grado di minaccia. L’impegno nella prevenzione di un pericolo e, per converso, il livello di accettazione di una minaccia correla con il  modo in cui si valuta la minaccia stessa. Numerosi esperimenti di psicologia cognitiva dimostrano che i processi cognitivi sono influenzati dagli investimenti della persona e tale influenza tende ad avere, tra i suoi effetti, l’aumento della resistenza al cambiamento delle assunzioni che sostengono l’investimento stesso. L’investimento prudenziale influenza poi l’attenzione selettiva orientandola verso i segnali e le informazioni di pericolo rendendole più evidenti e sappiamo che le informazioni più evidenti sono anche ritenute più probabili. La prudenza implica anche che l’attività mentale si concentri sulla possibilità di pericolo e, dunque, la ruminazione implica un aumento della probabilità attribuita al danno. La persona che investe nella prevenzione di un pericolo tende a costruire una rappresentazione della realtà in cui vengono selettivamente privilegiate le possibilità del pericolo  a discapito  di quelle di  sicurezza, e  questa premessa mentale indurrà un controllo delle ipotesi, che sarà focalizzato sulle supposizioni di pericolo, mentre quelle di sicurezza saranno de-focalizzate; la raccolta dei dati privilegerà quelli congrui con l’ipotesi minacciosa e si tenderà alla conferma prudenziale dell’ipotesi di pericolo.

Purtroppo siamo evolutivamente strutturati in modo da privilegiare la filosofia:  “Meglio sicuri, che dispiaciuti”.

Spesso il fallimento dei tentativi di ristrutturare le idee di pericolo dipende, principalmente, dall’investimento prudenziale assunto. L’impossibilità di dismettere le idee di pericolo a fronte di contro – esempi dipende allora da come queste sono elaborate nella propria mente, massimamente orientata in senso prudenziale.

Il cambiamento delle assunzioni di pericolo è dipeso da una riduzione dell’investimento prudenziale, cioè dalla accettazione di un livello di pericolo maggiore, accettare il rischio aiutati anche dalla considerazione che è un rischio che tutti corrono.

In conclusione,  il fine della terapia è ridurre la minaccia percepita, perciò allora  è evidente  che è  opportuno rimodulare  l’orientamento cognitivo prudenziale, altrimenti la elaborazione delle informazioni privilegerà le ipotesi pericolo. Per rimodulare l’orientamento cognitivo prudenziale, però, è importante ridimensionare l’impegno protettivo, vale a dire aiutare il paziente ad accettare un livello maggiore di minaccia. Ciò può essere ottenuto modificando i fattori che incidono sul livello di impegno protettivo in modo relativamente indipendente dalla percezione della minaccia.

Cosa si può fare per aiutare il paziente ad accettare un livello di minaccia maggiore?

Da quanto detto finora deriva che si possono seguire tre strade:

  1. aiutare la persona a vedere l’impossibilità o la difficoltà a ridurre la minaccia, a realizzare, cioè, l’inutilità almeno di parte dei suoi tentativi di contenimento della minaccia;
  1. aiutare la persona a considerare non solo i benefici della attività preventiva, ma anche i suoi costi;
  1. aiutare la persona a riconsiderare se davvero sulle sue spalle pesa davvero il dovere di ridurre la minaccia o se al contrario non è tenuto a tanto.

Se si riesce in queste direzioni, ci si può ragionevolmente aspettare l’accettazione di un maggior livello di rischio e dunque un minore investimento contro la minaccia.

Come si può aiutare la persona a riconsiderare l’utilità dei tentativi di sottrarsi alla minaccia o di ridurla?

Si può far presente l’aspetto per cui sono proprio i tentativi di controllare la minaccia che paradossalmente causano o aumentano la minaccia stessa.

La seconda strada passa attraverso una sorta di reductio ad absurdum e sembra indicata in particolare nei pazienti ossessivi. Dopo che il paziente ha preso una precauzione gli si può chiedere di ragionare sulla fondatezza del risultato raggiunto, è sufficiente? Può davvero stare tranquillo? O comunque il margine di prudenza ottenuto in più, a ben vedere, è ben poca cosa per scongiurare un pericolo che è sempre in agguato?

Il lavoro di accettazione descritto finora si svolge nello studio dello psicoterapeuta e mira a ridurre drasticamente la percezione del pericolo.

Non a caso nella formula della minaccia si fa riferimento all’incombenza, e numerosi studi dimostrano che la distanza temporale modifica “grandemente” l’entità della minaccia percepita, dunque il vero intervento terapeutico consiste nell’addestramento  ad accettare  l’esposizione alle  minacce quando si presentano nella vita tutti i giorni.

L’accettazione va costruita a priori lavorando sui fattori più sensibili, ad esempio sottolineando i costi morali degli evitamenti e neutralizzazioni.

Dopo aver costruito l’accettazione in seduta,  si può  chiedere alla persona di  allenarsi nel  corso delle sue giornate alle riflessioni svolte condivise.

Successivamente si può passare alla esposizione, che noi presentiamo come la realizzazione pratica e sistematica della accettazione preparata fino a quel momento.

È importante anticipare al paziente e insegnarli a notare che se lui è esposto alla minaccia l’ansia sale e se prende provvedimenti allora l’ansia scende molto rapidamente, ma la volta successiva avrà altrettanta ansia. Se al contrario si espone e non prende provvedimenti allora l’ansia scende e si mantiene per non più di 50-60 minuti e parallelamente diminuisce anche la percezione della minaccia. Nelle esposizioni successive, a parità di altre condizioni, l’ansia salirà ogni volta di meno e si estinguerà più rapidamente. Rispetto al problema della graduazione della esposizione, suggeriamo di discutere volta per volta con il paziente quale è il livello di minaccia che intende accettare.

È noto anche che se è il paziente a decidere autonomamente le esposizioni allora la procedura è più efficace. Infine addestrandolo a riflettere sulla opportunità di accettare rischi maggiori, si ottiene anche la possibilità che il paziente impari più rapidamente a gestire  le situazioni.

Per sostenere il paziente durante la procedura di esposizione e di blocco delle condotte protettive, è opportuno riprendere le considerazioni che lo hanno aiutato nella accettazione durante la messa in discussione precedente.

 

 

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